10 Ott Tre parole (zucchero, metallo e paraffina liquida )
Non lo so: tutto questo amore nell’aria mi dà la nausea. Zucchero filato e caramello bruciato, questo mi pare di sentire. E tutte quelle morbide caramelle colorate che ho nervosamente masticato finora, ecco – vade retro – con una capriola all’indietro, tutte quante se ne tornassero all’istante da dove sono venute! Non le voglio più vedere, qui intorno, qui dentro, non voglio più sentire quella presenza nauseabonda di favole melense coi tutti quei cuori e i soli e gli amori.
Subdola, invece, risuona dallo stanzino laggiù in fondo quella canzoncina, insiste, come ci fosse bisogno di cadenzare ogni immagine, amplificare ogni traccia di quegli amorini sciocchi che non sono i miei. E le tre parole, tre per tre, trentatré in questa stanza vuota ma senza bacio che non fa parlare. Che le cose da capire tu le hai nascoste sotto il tappeto, tempo fa, e ti sei voltato appena, scendendo le scale, e io che ancora ci giro intorno a quel tappeto e tralascio pure le briciole a casa, per paura di aspirare anche l’ultimo ricordo che rimane di te nel mio salotto.
Cerco di scivolare nel sonno, profondo profondissimo, possibilmente, di quelli che ti fanno dimenticare persino il tuo nome e l’indomani ti risvegli con la mente resettata, in forma, pronti via, si ri-parte. Da capo.
Per l’ennesima volta. Un’altra ennesima volta. Di nuovo, da capo.
Invoco sonnolenza riparatrice. Niente da fare. Mi rigiro nel letto, assumo da tempo eccessivamente prolungato una posizione scomoda e innaturale, e con questa crudele torsione del corpo allungo il collo e cerco di dare un senso a tutto questo pungolo tedioso.
Tic-tac tic-tac, tic-taaac. Ma i minuti che corrono nella notte non hanno lancette, solo solamente numeri rossi, e sfarfallano furiosi sulle pareti della stanza, e rosso risuona il rintocco di quel campanile nella testa che mi dà il tempo e mi ricorda di battere il ferro finché è caldo.
E corro e mi affanno ma arrivo in ritardo (ma quanto è caldo, questo ferro?)
Certo che tra marshmellows e noccioline caramellate mi rigiro e tento di mandar giù una piccola troppo amara e ingombrante. Provate voi con una capsula che contenga tutti quei sole/cuore/amore altrui: potete immaginare la quantità di principio attivo contenuto? Che l’uso concomitante di sostanze che alterano la percezione della realtà (altrui) a lungo andare possono causare gravi effetti indesiderati. Ma questa pillola manco con lo zucchero mescolato a abbondanti sorsate di vischioso Gaviscon scende. Non riesco a liberarmene. Non sale, non scende. Permane, invadente.
La sento appiccicata in fondo alla gola, l’epiglottide sinuosa come un diagramma di flusso si dimena, più in giù quella piccola pillola di malamore, lungo l’esofago si impossessa dei miei condotti e mi toglie il respiro (fa ridere quel piccolo presuntuoso colpetto di tosse stizzita: cosa ti credevi, bastasse così poco?)
Chissà. Forse questa pillola amara se ne starà lì ancora per molto, chi-sa. Io-so che nessuno se ne accorge, che sono brava a recitare, io. Trabocca il mio inventario di possibili varianti, e sono drammatica ossì, e frivola e poi ingenua, e poi timida, e poi sfrontata, e poi basta così, che mi gira la testa, e i pezzi ogni tanto me li perdo per strada e raccattarli tutti, poi: che fatica. Il collo appena piegato e il sorriso che si tende come un elastico a comando, secondo necessità. Di base, funziona sempre la versione di base. Facile e versatile, sta bene un po’ con tutto.
Prendo tempo, perdo tempo. Sono in ritardo, sempre in ritardo, il ferro è ancora caldo, e io mi ci avvicino ma mica batto: non è ancora tempo.
Toccata e fuga. E l’illusione, per un attimo, di aver scampato (un non ben precisato) pericolo (sussulto di paura – oh, quella stupida inconsistente paura! – che fa sentire male, vano male preventivo,che se solo mi avvicinassi scoprirei che è solo paraffina al profumo di vaniglia, quel metallo pesante disciolto)
Mantengo le distanze di (in)sicurezza nel trascinarmi ancora addosso un incomprensibile peso sulla spalla destra, e avanzo, ondeggiando, e quel peso batte e con le gote in fiamme canto e danzo intorno al fuoco a bassa voce, e sorrido nella penombra e attendo la notte per scrivere i miei silenziosi vaneggiamenti.
Brucia la fiamma, brucia il pensiero, e quel ematoma ormai violaceo che sfoggio sull’anca, imprecisata lettera scarlatta che mi ricorda che avrei dovuto battere il ferro, non la carne.
Colpo di tosse. Vacillo, poi sorrido.
E’ quasi tempo, ormai. Ho pensieri e desideri e facce e formine per ogni occasione. E tempo, tempo nuovo che arriva. Per fare di tutto, pure digerire tutti quei cuori e soli e amori.
Tutto quanto, tutta quanta.