20 Dic di sogni, minotauri e altre stanze vuote.
Esterno notte.
Da qualche parte dovrei pur iniziare ma non ho idea di quale sia quella giusta, nella realtà. Sono sveglia. O almeno così m’è parso. Sono sveglia e me lo ricordo dov’ero, quando tutto è iniziato. In quel chiaroscuro lontano e familiare. Sono entrata da una porta piccola piccola, di ferro e vetro smerigliato, come quelle dei vecchi depositi. Con il riflesso intermittente delle lucine a dare il tempo alle belle intenzioni natalizie delle persone che si agitano e s’affannano, là fuori.
Ma tu, no. Lì in mezzo, tu sorridi. Ti (ri)conosco. Tu – presente – con tutto il tuo passato portato addosso. Come se nulla fosse cambiato. Che ogni cosa cambia e rimane sempre la stessa. Lo vedi? Vai appena oltre la superficie.
Fammi entrare. Una luce soffusa richiama le luminarie del natale, là fuori. Ma senza alcun affanno, qui.
Il saluto tra noi è un rito antico che si ripete, solo che non lo sappiamo ancora.
Un bagno, posso usare il bagno?
(volevo solo dare una sbirciata alla vita che c’è là dietro)
E accomodati, per di qua.
S’apre un varco tra i capelli. Ti vedo. Fammi entrare. Solo un momento. Un luogo oscuro, rischiarato solo da un sorriso liscio su cui scivolare. Fammi entrare.
Una porta piccola, ma pesante. E dietro l’angolo appare una stanza nuova, imprevedibile, che percorro lenta. Prima un piede e poi l’altro. Le dita che poggiano piano e poi cedono al freddo di quell’azzurro che un poco luccica, nella penombra. E avanzo. Di nuovo. Prima un piede e poi l’altro, senza voltarmi. Dove sei?
Che quel “lasciami, lasciati andare” ora è un verso che prende forma e si arrotola e gira gira intorno fino a riempire la testa, stringe intorno al collo, stringe e si muove sulla pelle come un sospiro. Caldo. Gira. Tondo. Torna. Come l’azzurro che sento sotto i piedi. Freddo. E io sono nuda. Senza più nessuna identità da indossare. Neanche mi ricordo dov’è che ho lasciato i vestiti. Con le mie vite scritte e ripiegate nelle tasche. E perchè ora mi guardi e sorridi e sospiri e mi sfiori. Da lontano. Così lontano che quasi non distinguo più i tuoi occhi.
Spegni le luci, che voglio vedere senza guardare.
Tu chi sei?
Te lo chiederanno e non saprai rispondere.
Un atto di fede, questo pellegrinaggio. Fuori dal tempo. Il margine di un buco nero da dove non si può andare nè avanti nè indietro.
Scruto i corridoi sconfinati che portano a stanze sconfinate che s’aprono su altri corridoi che portano ad altre stanze e io sento freddo e tu sei lontano e non parli ma sento che sorridi con gli occhi e mi segui, immobile.
Lasciami, lasciati andare di nuovo, tra gli spigoli di queste mura da seguire con i polpastrelli di una mano. Tra il fianco sinistro e la penultima costola. L’ombra più cupa in cui ti soffermi. Sfiori. Sprofondi. Riprendi fiato. Riprendo il passo. A liberarmi da questa sensazione. A cercare il cuore, il senso, il centro che – lo sai – non è il tuo, ma ci vuoi entrare.
Un vuoto da abitare, tra pareti spoglie e angoli bui da (ag)girare. Sinistra, sinistra, destra e ancora sinistra. Le pareti che respirano. Le sento muoversi sotto le mie dita. Senza fine questa casa, come se le stanze rivelandosi portassero sempre più lontano. Lontano. Lontano. Stanze che continuo ad attraversare senza fermarmi mai. Proseguo. Cerco un punto di riferimento e forse lo trovo. Sotto un velo leggero di cellophane che si muove al tuo passaggio. Indolente ti invita ti chiama.
La plastica. La polvere. La carta che scivola a terra.
L’unica cosa che distinguo. Sono palpebre. O forse labbra. Sembra una ferita. Voglio metterci due dita dentro. Voglio sentire. Quanto fa male?
Stammi vicino, ma non troppo.
Non toccare. Non fiatare. Non dare il segnale sbagliato, o tutto sarà vano. Una voce, come un profumo si propaga nella stanza. In quel punto preciso torna quel nero a riempire il tuo sguardo. È un cerchio profondo che si fa denso. Fisico, da toccare.
Mi libero nel buio della settima stanza e indago i recessi più profondi. Scivolo nel tuo. Nero.
– Hai paura?
– No. È la tua natura.
– Perchè tu capisca cosa sta succedendo, ti farò a pezzi.
Dimmi, hai paura?
– No. Mi farai a pezzi. É la mia natura.
– Vieni più vicino. Lasciati attraversare.
La voce comincia a giungere confusa. Forse è solo nella mia testa. Lontana.
Inciderai i contorni della carne e poi le ossa e poi i tendini e potrai rigirarli tra le dita – leggeri. Inconsistenti. Gli darai forma. e nuova vita. Sarà breve e sarà intensa. Avrà il rosso del fuoco e il nero della notte. Avrà la mia faccia ma non il mio nome. Non avrò scampo e non potrò più scivolare via. Sarò qui e sarò altrove. Masticata e mescolata potrai leggere attraverso il mio corpo una storia folle. Totalmente inventata – l’unica possibile.
Dimmi, hai paura?
No, è la tua natura.
Ho percorso migliaia di chilometri tra queste pareti spoglie, tra angoli e ombre, senza mobili, senza traccia, senza vestiti. Senza scampo. Mi sono persa nel labirinto e non so dov’è che sto andando. Da quanto tempo sono in questa casa. Che è mille case insieme. Non vado da nessuna parte. Ma continuo a perdermi. Ancora e ancora. Che nello smarrimento io mi sento viva.
Stacco sul bagno.
Dormi bene, dici.
E chiudi la porta dietro di te.
Dentro di me.
Ogni pezzo di me.
Fine della scena.