Cinque ore nel non-luogo, lunghe. Mal di testa che batte e ribatte tra nuca e tempie per poi rimbalzare ossessivo nel bulbo oculare. Stronzissimo mal di testa. E le cinque ore che finiscono alle due e vai a casa, MA, per la congiunzione astrale lo sfavorevole allineamento - oggi proprio oggi - dei pianeti, e ora c'è da liberare quel casino del tuo garage, che vengono a portare via cose e lasciarne altre, quegli omini. Eccomi. Come un supereroe sgarruffato estraggo la bustina dell’okitask, che lo so che fa male allo stomaco ma la mia testa dice: non credere a tutto quello che ti dicono, fallo e basta. Così butto tutto sotto lingua (che sia più efficace?) e guardo l’ora per verificare che sia davvero effetto rapido. Gli omini furgonati sono più veloci del mio ketoprofene a rapido assorbimento e io scivolo verso lo Stige, là sotto. Un momento di sconforto. Comprendere in un nanosecondo il motivo per cui quella basculante rimane sempre chiusa, e domandarsi perché, perché, perché? davanti a scatole enormi di cui ignoro il contenuto e che giacciono qui, silenti e pesanti, dall'ultimo trasloco del 2008. Le risposte giungono e hanno forme alquanto discutibili e sconcertanti di certe paia di scarpe nascoste come scheletri in un armadio da ristrutturare e privo di anta. Sono spietati quegli scheletri che ghignano, i movimenti si fanno sempre più svelti e scaltri: via via tutto, che non rimanga traccia di quel torbido passato fuori-moda (peccato che i sacchi per la racconta differenziata “secco” siano impietosamente trasparenti)
Sul lato sinistro della sala, appena qualche gradino sopra, inchiodato a una vecchia saracinesca, uno sguardo sornione scruta di traverso e accompagna una smorfia da moccioso, inconsapevole invito d’ingresso. Sembra messo lì per caso Sascha, fermato di colpo, tra uno schiamazzo e una corsa rapida in strada, con quella ruvida giacca abbondante scivolata sulle spalle piccole, il gilet ben allacciato e le braccia lungo i fianchi. Che stia trattenendo il fiato come sto facendo adesso, guardandolo? Quella piega accennata della bocca segue lo sguardo che invece sfugge la direzione della freccia.
LOOK
E sia. Si guarda, si deve guardare, ci sono facce ovunque che chiamano e richiamano altre espressioni, altre immagini che rompono la continuità delle altezze, di quel candore sfacciato che quasi disturba.
Mi stringo nelle spalle e sento quasi le ossa che scricchiolano. Rimango impalata lì, immersa in questo naturale silenzio della stanza bianca.
La stanza bianca di Catherine Bailey
Bianca a tal punto che vien da socchiudere gli occhi, e li socchiudo, perché la parete che ho davanti mi obbliga a farlo. Tutti quegli scatti, rigorosi, fitti, alti, bassi, luccicanti e così stretti l’uno all’altro come dita intrecciate in cui si fatica a infilarsi. Fatemi spazio che voglio entrare, amalgamarmi, riversarmi come un’arteria in quel corpo fatto di tanti corpi e tanti sguardi e momenti che incalzano. Quanto è bella, Catherine. Bella con questi occhi grandi che penetrano l’obiettivo e inchiodano a quella parete quasi fosse una punizione a cui disperatamente si tenta di sfuggire. Impenetrabile, Catherine. Lasciati guardare, lasciati toccare così, algida e nera, gli occhi cerchiati, fissi altrove, la pelle diafana che si fa orlo da percorrere, uno scatto dopo l’altro, perfetto artifizio che diviene maschera gioiello da indossare a comando e carne nuda e viva che genera altra vita. Quant’è bella, e quanto è bello e crudele questo sguardo che ti scruta, ti scopre, ti esalta, ti cattura, Catherine, e concede beffardo una sbirciata veloce a noi qui, raccolti in questa muta stanza bianca. Quello sguardo che indaga complice e davvero conosce quella bellezza, la divora, tutta quanta, tutta intera.
M’assale oggi l’originaria sensazione di spossatezza.
Che tutto va per il verso sbagliato e bla bla bla, io alzo le mani, è battaglia persa, non ho alcuna intenzione di oppormi, come se qualcosa di estraneo alla mia vita, vita vera, mi tenesse per l’orlo del vestito e mi trascinasse controcorrente, contro natura, lontano dal centro vitale.
Pare un grido sordo, un lamento che giunge da troppo lontano per poterne distinguere le onde, ma tutto inizia inesorabilmente a rallentare, le orecchie lo incanalano, si comincia a distinguere, comunque c’è quella cosa e urta contro il timpano e precipita giù per la trachea – colpo di tosse – la nausea mi travolge. Che abbia finito il suo tragitto, stronza monetina impazzita? Vorrei vomitare questa sensazione quasi fosse un bicchiere di troppo, invece rimango immersa nei postumi di una sbornia antica che mi abita da sempre.
L’eco metallico senza più movimento si allontana dai miei pensieri, priva di controllo riprendo contatto con mille realtà.
Ringrazio questo silenzio che mi trattiene incollata a un tavolo, tra tasti che saltellano fuori e dita che si affannano nel tentativo di ricacciarli al loro posto. Ignoro le piccole lettere che si stagliano sulla fredda opalescenza (solo una fugace sbirciata, giuro) e prego affinché almeno l’emicrania si fermi, ma loro no, che danzino incessanti a darmi l’agognato sollievo. Un’altra sbirciata, con la fronte corrugata e gli occhi stropicciati a fessura, un’altra sbirciata a vuoto,
non c’è trucco e non c’è inganno!
E neppure il senso c’è, da trovare in ogni cosa come fosse una sequenza da decifrare, come se ci fosse sempre un premio da guadagnare, alla fine.