Cinque ore nel non-luogo, lunghe. Mal di testa che batte e ribatte tra nuca e tempie per poi rimbalzare ossessivo nel bulbo oculare. Stronzissimo mal di testa. E le cinque ore che finiscono alle due e vai a casa, MA, per la congiunzione astrale lo sfavorevole allineamento - oggi proprio oggi - dei pianeti, e ora c'è da liberare quel casino del tuo garage, che vengono a portare via cose e lasciarne altre, quegli omini. Eccomi. Come un supereroe sgarruffato estraggo la bustina dell’okitask, che lo so che fa male allo stomaco ma la mia testa dice: non credere a tutto quello che ti dicono, fallo e basta. Così butto tutto sotto lingua (che sia più efficace?) e guardo l’ora per verificare che sia davvero effetto rapido. Gli omini furgonati sono più veloci del mio ketoprofene a rapido assorbimento e io scivolo verso lo Stige, là sotto. Un momento di sconforto. Comprendere in un nanosecondo il motivo per cui quella basculante rimane sempre chiusa, e domandarsi perché, perché, perché? davanti a scatole enormi di cui ignoro il contenuto e che giacciono qui, silenti e pesanti, dall'ultimo trasloco del 2008. Le risposte giungono e hanno forme alquanto discutibili e sconcertanti di certe paia di scarpe nascoste come scheletri in un armadio da ristrutturare e privo di anta. Sono spietati quegli scheletri che ghignano, i movimenti si fanno sempre più svelti e scaltri: via via tutto, che non rimanga traccia di quel torbido passato fuori-moda (peccato che i sacchi per la racconta differenziata “secco” siano impietosamente trasparenti)
Me lo ricordo, era settembre. Sì, settembre come quella canzone di Cristina Donà, e anche tu me lo dicevi che era tempo di imparare a guardare la bellezza e la verità ripulire il pensiero e dominare il fuoco e rinunciare al veleno e ascoltare. Ho guardato e ascoltato e ripulito il pensiero. Senza più quella paura di attraversare il dolore, pur nella bellezza stessa (che è dalla bellezza che scaturisce, talvolta) La Bellezza, sì. E verità, soprattutto. La verità è che per anni ho coltivato e combattuto quella idea di anima gemella. Quella assoluta, totale. Quella fatale, che solo vive per il naturale compimento. Quella che si fonde e illumina e riflette e squarcia e sprofonda senza paura nelle zone più offuscate, quelle remote dell’anima. Quella sempre e comunque dà vita. Non ci siamo incastrati, lo so, e questa è un’altra storia. La verità è che ancora ci credo. Con tutta me stessa. Ancora, nonostante tutto. No, sul serio: certe convinzioni assolute che fai crescere in grembo poi te le porti ovunque, travaglio senza parto, e alla fine prendono strane forme. Sono in te, ci restano perché sono radicate laggiù in fondo, aggrappate come zecche nel profondo più nero del nero. Edith Templeton la definiva la scodella d’acqua*.
“To fathom Hell or soar angelic
Just take a pinch of psychedelic”.
Ti chini appena in avanti a raccogliere il flacone scivolato via chissà come dalle mani. La strada, attenta alla strada. Non correre, è tardi, fai presto, ti aspetto, è festa, che bello!
Rialzi lo sguardo verso la strada. Orologio. Specchietto. Strada. Flacone. Eat me - drink me. Pillola blu o pillola rossa? Troppo distratta lungo il tragitto, sviti il tappo e fai cadere qualche pillola sul palmo della mano. Chissà qual era il colore giusto.
Rosso, semaforo rosso. Ferma. Orologio. Specchietto. Strada. Flacone. La capsula scivola via veloce e la frase che si rinnova a intermittenza nella mente batte sulle tempie e in mezzo al petto: vegliate fanciulle, che non vi è dato sapere né il giorno né l’ora ma voi attendete fiduciose al varco, vergini in trepidante attesa che lo sposo giunga a voi, e riempite le vostre lampade di oli profumati, suvvia, e incensate generosamente le stanze sulle note ossessive provenienti dall'emisfero australe.
Una voce, oh! diletto. Corri, fai presto. La strada, attenta alla strada, è tardi, non correre, ti aspetto, è festa, che bello! Veloce come le vergini che s’affollano alla finestra - quella voce! - è buio là fuori, le spalle si stagliano contro una luce che scivola via complice e la sua sagoma riempie la scena. Oh!
Eccolo il re. Giunge silente come un respiro a lungo trattenuto che, senza preavviso, fa spalancare la bocca a prendere ossigeno quanto più possibile.
Per un attimo non succede niente. Gli angoli della sua bocca si tendono scoprendo una fessura in quella massa ordinata di denti sfolgoranti. Il sorriso schizza fuori dalla scena come un bottone di una gonna troppo stretta e quello sguardo che sai ti abbaglia e ti investe quando ancora sei lontana ed ecco che prende forma e meraviglia e scivola tra le pieghe degli abiti e dei disegni sparsi sulla pelle. Affondi il viso e ri-perdi fiato e mangiami! e bevimi! Le guance scoperte si fanno rosso vivo e pure tu sei rossa e-v-viva!
(sempre sia lodato, il re!)
E via, via tutto quel candore, via pure la retina del velo nero e via, via quel bel pensiero evanescente e inconsistente che ri-pRende forma tra solchi scuri di due palpebre spalancate perse in quella perfetta visione a colori.
Senza peso, fluttui. Come fossi una bambola ruoti la testa, da una parte all'altra, i capelli oscillano in modo ossessivo e regolare come un turibolo davanti all'altare, ti incurvi, ti inarchi, vacilli, barcolli fino a perdere l’equilibrio, il senso della misura, il senso del pudore, il senso del dovere, il senso di colpa. I sensi, tutti.